Sono più di due anni che non lascio l’isola su cui vivo. Mi sono detto che sto bene qui, che sto bene così. Che non voglio più demandare il mio benessere al luogo che abito. E in effetti è così.

Ma l’attesa di questo viaggio non scelto, non programmato, ma domandato, e questa infantile eccitazione mentre il treno comincia a prendere velocità, mi fanno capire che ne avevo bisogno.

Un lunghissimo volo intercontinentale dalla California alla Sicilia, più di tre anni fa, è stato il mio ultimo viaggio in aereo. Da allora ho proseguito il mio viaggio a passo d’uomo, al massimo a velocità di ciclista o di viaggiatore pendolare. Rasoterra: senza mai spiccare il volo.

Non l’ho mai deciso come si promette a sé stessi che non ci sarà un’altra volta; ho semplicemente assecondato un disagio che prima di allora avevo sempre giustificato. Quel fastidio sempre provato negli aeroporti, per esempio. La burocrazia, le corse folli, gli imprevisti sempre da prevedere. Quelle regole così stringenti che non sembrano però privare una qualsiasi funzionaria dell’arbitrio di decidere chi lascerà terra e chi dovrà invece attendere il prossimo volo. Una notte, rimasto a terra a New York per un overbooking, mi toccò dividere il sonno con i topi.

Sorvolo sui recenti scioperi e disagi, perché non ne ho, per fortuna, esperienza diretta.

Volare, poi. Quel puzzo di carburante durante l’attesa sul tarmac, la vertigine del decollo, quel caffè sempre pessimo e quella sensazione di essere catapultati in un altro mondo prima di potersene rendere conto, mentre ci si risveglia tra gli applausi scroscianti e liberatori di una platea sollevata che un attimo dopo si riversa disordinatamente sui corridoi intasando le vie d’uscita.

Quell’applauso di sollievo non è l’altra faccia di una tracotanza che, incredibilmente, per l’ennesima volta rimane impunita?

Catania-Torino. 21 ore di Intercity. Qualcuno mi ha fatto notare che è il viaggio di Vittorini al contrario, in Conversazione in Sicilia. Servirà a far decantare un po’ gli astratti furori? Sul ponte del traghetto troverò mangiatori di arance o di arancini?

Con chi dividerò questa notte “a terra” in una cuccetta quattro posti? Con quale accento parleranno i miei compagni di viaggio mentre cercherò di concentrarmi sulla mia traduzione? Quello che diranno sarà abbastanza interessante da farmi venire voglia di chiacchierare?

Una cosa è certa: non ci sarà nessuna plateale manifestazione di sollievo all’arrivo del treno a Porta Nuova. Atterrerò dallo scalino della carrozza, e trascinerò la mia valigia per le vie della città sconosciuta.

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