Fare il pane nel bel mezzo dell’estate è un atto di volontà.
Il gran caldo accelera e intensifica i processi vitali: nella farina si annidano e si schiudono le larve delle càmole, che vanno filtrate al setaccio prima di ogni altra cosa; i lieviti brulicano e fermentano più velocemente, rischiando di acidificare troppo l’impasto; si viaggia con frequenza verso l’angolo più fresco della casa (nel mio caso: la lavanderia), dove la lievitazione può proseguire con la necessaria lentezza; l’accensione e il mantenimento del forno a legna sono un’altra protesta dispendiosa contro l’inerzia della stagione estiva.
Fare il pane nel bel mezzo dell’estate è una conquista, un atto di resistenza attiva contro lo sfilacciarsi dei rituali nella frenesia dispersiva della bella stagione; resistenza alla perdita delle abitudini che alimentano la vita, come il gesto del rinfrescare il lievito madre una volta alla settimana, per fare, appunto, il pane.
In questa lentezza faticosamente ritagliata mi attardo dopo giorni di ansia introiettata e di ostinazione verso il lavoro che, nonostante le mie scelte di vita, devo avere assorbito dall’esterno. Un recente rendezvous con Andrè Gorz, uno dei miei punti di riferimento negli ultimi mesi, mi ha riportato sulla strada giusta, facendomi riflettere ancora una volta sulla pervasività martellante di messaggi che spingono a desiderare di più, a lavorare di più, a non accontentarsi del sufficiente.
Se lavorassimo tuttə un po’ di meno, diciamo cinque o sei ore al giorno, avremmo tuttə del tempo per fare il pane, per coltivare un orto o una passione per la musica o per il teatro, per prenderci cura di un bene comune o delle persone più fragili delle nostre comunità, per autoprodurci cose semplici che, per mancanza di tempo, siamo costrettə a comprare. Se lavorassimo tuttə un po’ di meno, la nostra popolazione non si dividerebbe così drasticamente tra disoccupatə e oberatə di lavoro, il lavoro sarebbe semplicemente meglio distribuito; smetteremmo forse di dare tutta questa importanza al lavoro salariato come fulcro delle nostre esistenze e della nostra rispettabilità sociale. Se a tutto questo si accompagnasse un reddito di cittadinanza veramente universale…
Forse così capiremmo che anche questo rallentare per dare voce e forma a un pensiero, come si dà forma a un pane, ha un valore immenso quanto difficilmente monetizzabile. E non ci accaniremmo così tanto nella pretesa di un compenso, come se fosse l’unica misura di valore delle cose che facciamo.
Rimando a questo bel documentario su Andrè Gorz per una riflessione più articolata su lavoro salariato, reddito universale, ecologia politica e molto altro ancora. Il documentario si può guardare in streaming con un contributo libero.