“L’uscita dal capitalismo è già cominciata”, scriveva André Gorz a pochi mesi dalla sua personale uscita di scena, insieme a Dorine Keir, compagna di una vita. Ecologista ante-litteram, fin dagli anni ’70 Gorz ha scritto di decrescita ed ecologia politica, e proprio su questi temi aveva finito per scontrarsi con l’ambiente comunista in cui aveva militato, perché “Il socialismo non vale più del capitalismo se non cambia strumenti”, scriveva nella prefazione in Ecologia e libertà. Gorz intendeva dire che il solo passaggio di mano dei mezzi di produzione non avrebbe posto fine al capitalismo e alle minacce ambientali generate dall’imperativo della crescita illimitata.
Un aspetto che mi affascina particolarmente, del pensiero di Gorz, è il suo concentrarsi sulla condizione del soggetto, sviluppata a partire dalla sua frequentazione con Sartre e con l’esistenzialismo. Nella “megamacchina sociale” del capitalismo, sostiene Gorz, il soggetto è “tagliato a fettine” e iperspecializzato, sia come produttore – lavoratore salariato con mansioni ben precise e spesso ripetitive – sia come consumatore lasciato in balìa della “dittatura dei consumi”, perché non ha più né il tempo né le competenze per l’autoproduzione o l’acquisto consapevole.

Tirarsi fuori da questa megamacchina sociale, anche quel poco che basta per rendersi conto del suo funzionamento, non è per nulla facile, complice la tendenza innata del capitalismo a saturare ogni aspetto della vita, sia come tempo sia come risorse, fino a convincerci che no, There is No Alternative, non esiste un’alternativa praticabile.
Leggere Gorz mi ricorda che non esiste altro modo per farlo se non ritagliandosi spazio, il che spesso significa tempo, per coltivare l’unicità del proprio soggetto e l’autonomia che forse possiamo ancora ritrovare nel capire quali siano i nostri veri bisogni. Allargare quella linea di confine spesso inesistente tra il nostro essere produttrici in orario d’ufficio e consumatori nel nostro tempo “libero”. Siamo talmente abituatə a questa dittatura del consumo che può sembrarci inconcepibile l’idea di prenderci del tempo per noi stessə senza che quel tempo implichi il consumo di un bene o di un servizio (sì, proprio quello a cui stavi pensando!).
E invece dovremmo alimentare quei momenti di vuoto, esserne gratə se abbiamo la libertà di ritagliarceli, e renderli spazi di autoconoscenza, di comprensione dei nostri bisogni, di autoproduzione in risposta ai nostri veri bisogni. E, se siamo proprio fortunatə, possiamo renderli momenti di condivisione autentica della nostra esperienza, rimettendo così in circolo parte del privilegio. Da una piccola crepa può nascere un’enorme voragine, e in questo senso il vuoto può essere denso di potenziale generativo, anche se possiamo avere l’impressione di non fare nulla.
P.S.: Per le irriducibili che si sono spintə fin qui, un consiglio su un (breve) libro da cui cominciare a scoprire André Gorz: Lettera a D. Storia di un amore, édito in italiano da Sellerio. Lettera d’amore in cui Gorz pronuncia il suo mea culpa per aver minimizzato l’importanza di Dorine in qualsiasi cosa egli abbia fatto o scritto nella sua vita, e alla luce di questo riflette sullo snobismo individualista di certa cultura intellettuale, e sulle difficoltà incontrate insieme a Dorine nel loro percorso di consapevolezza.
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