Raccontare la mia esperienza a Dover St. Edible Park non è un’impresa facile, perché proprio in quell’orto-giardino di Oakland, nell’area metropolitana di San Francisco, si sono snodate tante piccole trasformazioni che, accumulandosi, hanno finito per dare una direzione nuova alla mia vita.

A quei tempi ero immerso nel mio ultimo anno di dottorato: un periodo di scrittura intenso e stressante durante il quale provavo ad attenuare l’alienazione di un’attività puramente intellettuale con lunghe passeggiate nei dintorni del mio quartiere. Nel corso di una di quelle passeggiate, scoprii Dover St. Park, un piccolo parco con bambinopoli sorto nell’ex-parcheggio di una residenza per anziani, dove un gruppetto di abitanti del quartiere aveva installato qualche anno prima un orto-giardino con bancali, vari alberi e arbusti da frutto, compostiera, semenzaio, una siepe per gli insetti impollinatori e una cucina all’aperto.

Nelle settimane successive, le visite a Dover St. Park si fecero più frequenti, e cominciai a partecipare alle sessioni settimanali di cura dell’orto-giardino: era la prima volta che facevo l’orto, e lavorare insieme a un gruppo di persone con più esperienza era il modo ideale per cominciare ad acquisire esperienza, stabilendo, al contempo, nuove conoscenze tra la gente del quartiere.

Il giardino commestibile di Dover St. Park è gestito in maniera comunitaria: non ci sono parcelle individuali recintate, ma un’unica area aperta al pubblico e curata da un gruppo di volontari/e che si ripartisce le varie mansioni e parte del raccolto, da portare a casa o cucinare e mangiare insieme durante festicciole domenicali nel parco. Ma i frutti del giardino commestibile, che cominciano a essere abbondanti, sono a disposizione di chiunque frequenti il parco: dai bambini della vicina area-giochi, golosissimə di fragole e lamponi, ai numerosi senzatetto che abitano nelle vicinanze e nello stesso parco, a madri di famiglia recentemente trasferitesi in città, che riscoprono così il loro legame con la terra.

Data la mia assiduità, mi venne affidato un piccolo angolo dell’orto perché me ne prendessi cura, partendo delle piantine prodotte dall’addetto al semenzaio e dal fenomenale compost prodotto nell’orto da altre/i volontari/e grazie al contributo (in fondi di caffè) di alcune caffetterie e altri locali della zona. Le mie incursioni a Dover St. erano ormai quasi quotidiane; passavo le mattine a scrivere senza sosta per poi concedermi qualche ora pomeridiana a sporcarmi le mani; a volte venivo presto la mattina, per fare scorpacciate di gelsi rosa e vedere le piantine risvegliarsi dopo una notte di pioggia.

Il mio rapporto con il tempo e con il mio ambiente cominciò a cambiare: scoprii la lentezza e la speranza dell’attesa; capii sulle mie piante che il tempo atmosferico (e quindi anche il cambiamento climatico) ha conseguenze che vanno oltre la scelta dell’abbigliamento, che siamo tuttə legatə a un filo di fragile equilibrio. Scoprii il piacere di vedere fiorire una zucchina, del piccante intenso di una foglia di rucola appena raccolta.

Spesso venivano a trovarmi bambine stufe della fila allo scivolo che preferivano aiutarmi a innaffiare, o ragazzini che scortavo nelle loro scorribande a caccia di lamponi e bacche di alkekengi. La visita che mi commosse di più fu quella di una donna di origine yemenita che avevo visto altre volte raccogliere fave e cavoli da altri bancali. Si avvicinò timidamente e mi fece cenno di seguirla verso il prato dove aveva allestito un picnic per sé e i suoi tre figli. Mi porse un bicchiere di vetro e mi versò del tè dolcissimo che profumava di rose. Mi porse un sacchetto di biscotti salati al burro ricoperti di sesamo nero. Mi disse che erano per me. Capii che era il suo modo per ringraziarmi per le lattughe e rucole che aveva raccolto nel bancale da me coltivato.

Se non avessi coltivato quell’orto, probabilmente non sarei stato in condizione di poter scambiare con quelle persone in quel modo; sarei stato uno dei tanti abitanti di passaggio nel quartiere, uno dei tanti ex-inquilini sconosciuti di cui ancora arrivava la posta. Dover St. Edible Garden mi regalò, oltre ad abbondanti raccolti e nuove consapevolezze, un senso di appartenenza a un luogo e a una comunità che ancora mi scrive per informarmi sulle nuove piantine messe a dimora nel “mio” bancale e per chiedermi di spedire, in tutta clandestinità, i semi del vero pomodoro San Marzano!

One thought on “ Memorie californiane: coltivando relazioni a Dover Street Edible Park ”

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